Archivio Giornaliero: Settembre 11, 2007

Incontro al “Gabbiano” con Cirilli

Il Movimento è costituito dalla somma delle persone fisiche che sottoscrivono il Manifesto. L’adesione al Movimento avviene quindi con la sottoscrizione del Manifesto e si considera automaticamente perfezionata a meno che non vi siano rilievi da parte dell’”Assemblea” (vedi di seguito). Non vi è incompatibilità tra adesione al Movimento e la partecipazione ad associazioni o movimenti politici o sindacali i cui statuti o programmi non siano in contrasto con  i principi contenuti nel Manifesto. Non possono sottoscrivere il Manifesto ed aderire al Movimento le persone che si trovino in una delle condizioni stabilite dall’art.58 del D.Lvo 267/2000 (cause ostative alle candidature elettive: es. condanne definitive per reati di peculato, concussione, corruzione, ecc.). Al fine di meglio organizzare le attività del Movimento, l’adesione personale avviene attraverso la partecipazione a gruppi di persone (di seguito denominati “gruppi”). La promozione della costituzione dei “gruppi”, con un numero minimo di 15 partecipanti, avviene ad opera di singole persone a tal fine denominate “responsabile del gruppo”. Non può essere “responsabile del gruppo” la persona che aderisca a rappresentanze politiche, salvo che queste ultime non siano diretta espressione dell’azione politica del Movimento. Il vincolo che unisce ciascun “gruppo” è la condivisione dei principi a base del Manifesto. Ogni “gruppo” si riunisce, si mobilita, partecipa all’azione politica del Movimento, produce e recepisce istanze nel rispetto dei principi del Manifesto e delle azioni ed obiettivi comuni a tutti i “gruppi” facenti parte del Movimento.  Dalla sottoscrizione del Manifesto discende l’impegno morale di vivere e testimoniare nel proprio agire politico e sociale i principi indicati nel Manifesto. I “responsabili dei gruppi” fanno parte dell’Assemblea il cui compito è quello di individuare e promuovere strategie, piani di azione ed obiettivi comuni a tutto il Movimento e che trovano rappresentanza istituzionale nella figura di Fabrizio Cirilli e degli eletti nelle liste di riferimento del Movimento. L’Assemblea ha altresì il compito di validare le adesioni al Manifesto e di decidere su eventuali cause di cessazione dell’adesione della persona per incompatibilità e/o contrarietà ai principi contenuti nel Manifesto.  Su tematiche e/o problematiche specifiche, su indicazione dell’Assemblea o del promotore del Movimento, possono essere creati team di studio ed analisi.    L’adesione al Movimento cessa per volontà individuale comunicata all’indirizzo sede del Movimento o per decisione, comunicata al singolo, dell’Assemblea per fatti e/o comportamenti della persona aderente incompatibili e/o contrari ai principi contenuti nel Manifesto.  

Aree verdi trascurate

Segnalo l'articolo pubblicato stamane su Latina Oggi nella sezione Borghi e Quartieri a pag. 9, che riporta le segnalazioni raccolte sul Portale  in merito allo stato di abbandono dell'Oasi verde e del parco di fronte al Lestrella. Se qualcuno avesse la bontà di inserilo per la lettura (c'è pure la foto di Freddy, da non perdere assolutamente ! )

Saluti

Francesca 

Riflessioni sull’11 settembre…..

il mondo colonial si  sente ancora spiritual…in margine al dibattito sul soft power e il contrasto al jihadismo                                                                                                                                          Alessandro Ceci  Arzigogolando su posizioni teoriche e colori dalle diverse tinte, le interpretazioni su quanto avvenuto in questi anni si perdono sul doppio binario del power (hard and soft) e sul jihadismo di maniera. Sono interpretazioni banali che finiscono tutte nel doppio cieco della geopolitica; in quella visione meticolosa di persone e personaggi, di fatti e  misfatti  che oscura i processi. E così appaiono sul proscenio di televisioni, convegni, talk-shows e giornali, le chiacchiere di chi  si diletta con sottili ed inutili, se non addirittura pericolosi, distinguo sui terrorismi.Si potranno affrontare 2 questioni, al di là del “cra cra delle ranelle”? La prima è semplice. Il terrorismo è sempre lo stesso, ha sempre la stessa struttura o, per usare un linguaggio più appropriato, ha sempre le stesse strutture conservative. Possiamo sostenere che il terrorismo religioso islamico ha scatenato una conflittualità ad alta intensità, confronto alla guerriglia urbana delle formazioni metropolitane. Ma concentrarsi sulla lingua araba, sulla mentalità degli arabi e persino sul Corano può essere fuorviante rispetto ad una violenza politica che invece mostra, sempre, caratteristiche molto simili. Si apprende l’islamismo fino in fondo, ma si ignora il terrorismo. In questo è il doppio cieco: ciascuno ignora l’essenza dell’altro. Si cerca una ragione terroristica nella tradizione antica della religione islamica e si dimentica totalmente che il terrorismo è un fenomeno della modernità. La stessa rete del terrore di Al Qaeda è una acquisizione occidentale che Bin Laden ha introdotto nel sistema conflittuale arabo. A rigore, come in ogni approccio messianico fondamentalista, la violenza svolgeva la funzione di purificazione salvifica e quella di esempio educativo. Meno era una strategia di potere, di controllo, influenza e gestione  del potere  come è per i terroristi. Certo il passaggio dall’uno all’altra è istintivo e quasi immediato. Tuttavia ciò non può nascondere il fatto che il terrorismo è un effetto diretto della nostra modernità che utilizza una ideologia comunque palingenetica per la propria legittimazione. Allora, piuttosto che concentrarsi sulle diversità, sui particolarismi e, addirittura,  sulle minuzie meticolose, cioè sulle strutture dissipative di questo fenomeno, sarebbe molto meglio definire i caratteri di similarità tra gruppi e organizzazioni. I terroristi sono sempre fondamentalisti. Che lo siano dell’islamismo, del cattolicesimo o del marxismo, non è che cambi molto. Cercano sempre di giustificare con una interpretazione ortodossa la loro azione politica di terrore. Che sia islamica o comunista fa poca differenza. Perché, più di tutto, il terrorismo è sempre e principalmente un fenomeno politico: organizzazioni politiche di soggetti politici. E come tutti i movimenti politici mira sempre al potere, acquisizione o influenza, comunque gestione del potere. Tutto queste  voci che spiegano gli accenti diversi  e i toni di mezza scira del Corano, fanno soltanto confusione e ci costringono a riflettere sul niente. Se invece ci si concentra sul fenomeno per come si è mostrato sempre nella storia, si riesce a comprendere quanto distante sia l’azione politica di Al Qaeda dalla sua dichiarazione religiosa. Non fosse altro che il terrorismo è un fenomeno della modernità occidentale, nato con la rivoluzione francese, proclamato nel celeberrimo discorso sul Terrore e la Ragione di Robespierre e poi istituzionalizzato nell’altrettanto celeberrimo governo del terrore Bianco. Questo però ha ben poco a che fare con la religione premoderna dell’islamismo fondamentalista. Concentrarsi sulla violenza sociale e far di questa una manifestazione del terrorismo è senza senso. Il terrorismo è un fenomeno politico che compie azioni politiche sulla base di una strategia politica.  La seconda questione è più delicata. Ci vuole più coraggio ad affermarla. Domando: da quando c’è il terrorismo globale di Al Qaeda quante guerre tra Stati si sono verificate? Subito dopo la caduta del muro di Berlino avevamo paura di tornare indietro, come dice Umberto Eco, ad una storia fatta di conflitti medievali tra micro Stati per la propria affermazione e per la propria proclamazione. E invece, con l’avvento del terrorismo di Al Qaeda, questo processo si è improvvisamente arrestato. Come mai? Che cosa è successo?  Nemmeno la percezione catastrofista di un barbarico terrorismo fondamentalista espanso a vista d’occhio in quelle terre d’Asia e di  Africa, si sta verificando. Né mi sembra avvenga la guerra tra moltitudini arabe, cinesi, indiane, indistintamente africane. Perché? Non è forse probabile che tutti questi studiosi del valore dei termini piuttosto che dei processi abbiano semplicemente sbagliato? Non sarà che, come dice una bella canzone di Paolo Conte, “il mondo colonial si  sente ancora spiritual” e queste analisi delle parole, da Jihad a Islam e cento altri consimili a prescindere dal loro esatto significato, copre una malcelata presunzione di maniera? Avanzo una ipotesi.La democrazia è sempre stato un sistema inclusivo. Da quando è avvenuta la democrazia nel sistema occidentale, il nemico esterno è stato sostituito dal nemico interno, lo scontro tra Stati si è trasformato in conflitto di classe. I conflitti inclusi nel sistema democratico sono sempre stati di due tipi: quelli legittimati dal meccanismo elettorale, quelli delegittimati perché estranei al sistema politico istituzionale. Partiti organizzati e organizzazioni terroristiche. Ma nessuno dei due è mai stato un conflitto esterno. Anche nel primo processo di democratizzazione occidentale  operai e capitalisti vivevano ciascuno nella propria “comunità” ; ognuno poteva riferirsi ad una propria “comune volontà di valori”. Anche allora erano due mondi che si consideravano rispettivamente “evidenti”  in quanto nemici. La loro scala dei valori, la loro cultura, non trovava punti di coagulo. Anche allora  il conflitto e la contrapposizione tra capitalisti e proletari alimentava “ciascuno la vitalità dell’altro”. Anche nella prima democratizzazione liberale assistiamo ad un conflitto violento che quasi prelude uno SCISMA SOCIALE, “cioè la frattura orizzontale e verticale fra coloro che si identificano ancora con l’antico regime … e coloro che hanno esplicitamente voltato le spalle alla tavola dei valori vigente”. Ma la democrazia include i conflitti, propone alla società lo scopo, in assoluto, di realizzare un’integrazione progressiva dei suoi soggetti. E questa inclusione è avvenuta con il passaggio dalla lotta soffocata e nascosta alla protesta violenta e reclamata, dal mondo chiuso dell’operaio illegittimo al mondo aperto della lotta di classe, da nemico potenziale della società a suo avversario istituzionale. Nella democratizzazione liberale il sindacalismo ha determinato il passaggio degli individui da “spostati” e “indotti” a “uomini di risentimento”. “Così gli esclusi, – scrive Pellicani – grazie alle loro lotte spesso sanguinose, sempre terribilmente costose, fecero il loro ingresso nella Città con le loro specifiche istituzioni di lotta – il sindacato ; il partito ; lo sciopero – e con essi i TRIBUNI DELLA PLEBE, interpreti permanenti dei loro conculcati diritti ed i loro interessi disconosciuti.”. La mia ipotesi è che stia avvenendo la stessa cosa, non più nella democrazia capitalistica, ma nella democrazia della comunicazione. Siamo di nuovo di fronte ad un conflitto tra “dislocati” e “integrati”. Siamo di nuovo di fronte alla eliminazione del confine e del nemico esterno. Siamo sempre dentro lo stesso violento processo di democratizzazione che riduce i conflitti tra Stati. Soltanto che, mentre nella società industriale questo processo si è verificato all’interno dello spazio autoregolato del mercato, nella società della comunicazione avviene in una dimensione globale. Quale è il sistema politico che ha interiorizzato il conflitto e che ha gradualmente eliminato la guerra tra Stati? La democrazia. La democrazia ha interiorizzato il conflitto nelle due forme storiche in cui il conflitto si è mostrato: quello legittimato dal sistema elettorale e quello delegittimato del sabotaggio e del terrorismo.  Il welfare state è stata l’espressione più evidente del processo di legittimazione del conflitto sociale, sia di quello inclusivo della classe operaio, sia di quello esclusivo delle avanguardie rivoluzionarie permanenti.  Io credo che, dopo la caduta del muro di Berlino stia avvenendo nel mondo semplicemente la stessa cosa. Siamo nel pieno del processo di democratizzazione planetaria, nella fase più violenta e dura, quando masse di esclusi vengono inclusi, sradicati e indotti ai processi di legittimazione della democrazia. Soltanto che, nelle nazioni del moderno occidente il processo di eliminazione dei confini esterni e quindi di annullamento dello Stato nemico per la generazione del nemico di classe avveniva all’interno della società capitalistica. Oggi avviene all’interno della società della comunicazione. Prima si affermava una democrazia liberale della forma. Oggi si conferma una democrazia della azione comunicativa. Allora lo scontro era per l’acquisizione dei mezzi di produzione. Oggi lo scontro è per il proscenio, per il tubo catodico, per il filmato ossessivo. Le stragi, le manifestazioni, le insurrezioni  che ci vengono mostrate in tempo reale dai media, appaiono mille volte più eloquenti dei discorsi di tanti islamisti alla ribalta negli ultimi tempi. In questo modo la lotta, che era una volta lotta di classe ed ora è una classe di lotta, con i suoi vinti ed i suoi vincitori, non è più una cultura altra. Le immagini del terrore includono il conflitto. La morte, per quanto dolorosa, una volta rappresentata diventa interna al sistema. Se non può essere tollerata viene almeno percepita e, quando viene comparata la morte che noi produciamo, viene compresa e rifiutata. In ogni caso diventa una cultura del sistema, di un sistema molto più ampio: del sistema mondo. I paradigmi alternativi compaiono in programmi televisivi e vengono in qualche modo riformulati. La mia ipotesi dunque è che il terrorismo moderno non sia null’altro che l’effetto storico del processo di democratizzazione emergente. Ed è un terrorismo ologrammatico perché è il prodotto della società della comunicazione e del suo nuovo regime: la democrazia della comunicazione. Ancora una volta siamo di fronte alla esigenza di raccogliere la solitudine e l’insicurezza degli sradicati. Ancora una volta una situazione rivendicativa, addirittura una accusa infamante contro il colonialismo occidentale, può diventare una protesta politica con un proprio significato ed una propria giustificazione. Ora come allora, in questo passaggio dalla sofferenza alla sfida, i nemici si riconoscono ed implicitamente si legittimano. Solo che mentre prima la legittimazione poteva essere il prodotto della concorrenza elettorale, nella democrazia della comunicazione non c’è  legittimazione senza integrazione. Così come la lotta di classe ha introdotto il proletariato nella città, permettendo la proclamazione delle proprie teorie giustificatorie ed il reclutamento dei consensi, oggi la politica della integrazione – e non quella del contrasto – determina il definitivo processo di pacificazione nella democrazia della comunicazione. E se prima ingresso non significava necessariamente integrazione, oggi l’integrazione è il solo ingresso. Perché prima la società era governata da una forma politica; una delle 3 forme aristoteliche (tirannide, oligarchia, democrazia). Hannah Arendt ci ha insegnato invece che i sistemi sociali moderni si governano con una azione politica, che può essere totalitaria o democratica, o entrambe contemporaneamente. Se prima bastava riformulare il contratto sociale, oggi ogni azione è una riformulazione dell’equilibrio sistemico. Se prima si riducevano i conflitti con una mediazione tra soggetti protagonisti, oggi occorre una etica della responsabilità collettiva. L’unica cosa che non possiamo permetterci è, come fece il primo capitalismo, raccogliere la sfida e cercare politiche di contrasto. Nella comunicazione è l’azione di integrazione  che ufficializza e quindi implicitamente  riconosce un ruolo oppositivo all’altro. Non entrerò nel dettaglio esplicativo di questa ipotesi, riservandomi altri, più articolati, elaborati. Qui intendo soltanto segnalare una possibilità interpretativa: che il terrorismo globale di Al Qaeda non sia altro che un effetto tradizionale dei conflitti delegittimati della democrazia, in questo caso della democrazia della comunicazione che con un ampio processo di globalizzazione sta eliminando i suoi confini e quindi i suoi nemici esterni e li sta trasformando in oppositori interni. Null’altro che un doloroso processo di pacificazione globale. D’altronde, anche in termini quantitativi, i morti prodotti dal terrorismo sono molti di meno di quelli prodotti dalle guerre tra Stati medievali armati da tecnologie industriali. Se fanno più male i martiri del terrore piuttosto che i martorizzati dalle guerre è semplicemente perché il terrorismo è una azione politica interna, inghiottita voracemente dalle fameliche telecamere della globalizzazione. La guerra era esterna ed estranea alla tv generalista, al limite circoscritta in una riserva indiana di reportage intellettuali. Bin Laden occupa le prime pagine dei telegiornali perché vive con noi, tra noi, all’interno dei nostri incubi mediatici quotidiani, al fianco di genitori e figli assassini nella provincia italiana. Un protagonismo che cerca legittimazione da coloro che proclamano di voler contrastare quel protagonismo con il loro protagonismo. D’altronde, tutti coloro che cercano politiche di contrasto, producono politiche di contrasto alle politiche di contrasto.

Ma sono soltanto parole, più pesanti di pietra che, nell’ozio post pranzo di molti costosi convegni, occultano la responsabilità intellettuale e politica dei partecipanti. Sono parole pesanti perchè sono parole di pietra, scagliate contro l’altro con l’indifferenza dell’incoscienza.

Non c’è niente da fare:  Sento tante volontà di contrasto. Vedo tante buone volontà in discussione, tanti convenuti a discutere sofisticate strategie per il contrasto che reclamano, dall’altra parte, il contrasto alle strategie di contrasto in una rincorsa infinita verso la catastrofe. Non c’è niente da fare: il mondo colonial si  sente ancora spiritual”.Forse dovremmo semplicemente sostituire il termine contrasto con quello di integrazioneForse basterebbe soltanto un Welfare di nuovo tipo.Ma questa è una terza questione. Ed è la più difficile.