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«I fortunati d’oltre Pontina»

Egregio direttore,
Siamo punto a capo. Sono venti anni che abito nel quartiere Q4 e venti anni che non facciamo altro che raccontare e contare i morti. I nostri morti che anche se non conosciamo, ci appartengono perché fanno parte della nostra quotidianità.
Chissà quante volte i nostri sguardi si sono incontrati davanti al banco del pane o le nostre mani incrociate in chiesa per scambiare il segno di pace o chissà dove. I nostri morti ci appartengono anche perché ci accomuna un torto: quello di essere trattati diversamente dagli altri che abitano oltre la Pontina e che più fortunati di noi possono recarsi al lavoro o a scuola senza attraversare la strada più pericolosa d’Italia, assoggettandosi così a una quotidiana roulette russa che a volte va bene, a volte no. E quando no, ecco che le brutte pagine di cronaca si riempiono dando vita a fiumi di inchiostro che nulla muovono. Perché loro, i fortunati dell’oltre Pontina, non captano i nostri segnali di disagio, e ci lasciano soli a sfogare
una rabbia e una indignazione senza fine. Quell’indignazione che a me tanti anni fa, ha scatenato la spinta a scrivere e a raccontare proprio su questo quotidiano il primo triste fatto di cronaca. Il primo di tanti, accaduto in una tiepida mattina di ottobre, quando un bidello, neo pensionato e nonno premuroso, nell’accompagnare i nipoti a scuola con la sua seicento color nocciola, si immise, nella giusta direzione, sulla Pontina, allora unica strada di collegamento alla città. Unica, perché avevano da poco interrotto la via Lunga, per costruirvi altre case.
Unica perché ogni tanto nascevano e morivano altre bretelle di collegamento, senza un progetto e senza un piano. Unica per una improvvisazione sempre più pericolosa e senza fine.
Ma torniamo a quel giorno. All’uscita del km 70 quella macchina color nocciola venne tamponata, il nonno morì e i nipotini portati in ospedale. Chi si era trasferito da poco al Q4, me compresa, rimase impressionato, e immediata fu la percezione che i tre ponti sopraelevati del progetto pubblico non sarebbero stati mai realizzati. Come non sarebbe mai stato realizzato l’elegante «centro direzionale». Un bluff. E noi che avevamo acquistato confidando in quel piano particolareggiato.
La reazione fu immediata. Nacque subito un comitato spontaneo. Ci incontravamo in una aula della scuola Milani, allora ospitata in una villetta. Una decina di impavidi che cominciarono a fare anticamera nelle segreterie di assessori, prefetti, forze dell’ordine, chiedendo continuamente sicurezza, considerazione e impegno. Ricordo ancora quegli sguardi pietosi dei nostri interlocutori. Che tali rimanevano.
Una infinità di contatti inutili. Fino a quel giorno nel mio ufficio. All’epoca io lavoravo in Catasto, ero in sala visura e raccontavo ad un geometra del Comune le difficoltà e la paura quotidiana per tornare a casa. Ogni volta dovevamo attraversare la Pontina e ogni volta in salvo si diceva: «meno male, oggi ce l’ho fatta». Il geometra mi ascoltò e mi chiese di prendere una vecchia mappa catastale. Sulla mappa c’era segnato con linea tremante un canale chiamato Marbella. Si, si. Il canale si chiamava proprio Marbella. Il nome Morbella venne fuori intorno agli anni ’50 per un errore di trascrizione. «Ecco disse esultante il tecnico – mi ricordavo bene. Qui c’è già tracciato un sottopasso che si può realizzare senza problemi». E così fu. Il geometra e lo voglio citare, perché è stato una delle poche persone concrete che senza tante titubanze ha risolto un
grande problema, è I. Q. . Il sottopasso fu un’ottima soluzione. Per poco però, perché per motivi oscuri, ma noti, venne cambiato il senso di marcia, originando pericolosi e inutili incroci con semafori. Capolavoro poi concluso con la «chicca» del passaggio a raso. Il resto è cronaca di oggi e il dibattito è: chiudere o no l’incrocio assassino.
Nessuno nel frattempo però si è preoccupato di far vigilare quel tratto di strada dove la velocità la fa da padrone. Con limiti o senza. Una terra di nessuno, appartenente ad una città e che città non è. Nessuno che fa rispettare le regole. Evidentemente hanno sempre pensato che segnali, lampeggianti e lucine per terra sarebbero stati sufficienti a calmare chi le regole le viola continuamente. Ma gli assassini sempre in agguato non si fanno certo intimorire da queste piccolezze. Noi da venti anni chiediamo le stesse cose: un sottopasso peraltro già previsto. Intanto i costruttori hanno continuato a costruire e a riempire case e giorno dopo giorno i quartieri di periferia, si sono trasformati in paese: Un grande paese senza servizi, senza collegamenti e senza controllo. E i problemi di ieri si sono incancreniti fino al midollo. Venti anni di inutili chiacchiere e promesse. Allora dico a coloro che per superficialità, per leggerezza e per incuria hanno lasciato correre su decisioni importanti, che dovrebbero vergognarsi un po’, per questa morte e per le altre dimenticate. È ora di agire e in silenzio. E noi
guerrieri senza speranza, non facciamo calare le ombre facendoci prendere da stanchezza. Loro «i fortunati dell’oltrePontina» non aspettano altro.
( Mariassunta D’Alessio)

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